Mi sono imbattuta in un articolo alquanto sconcertante sui matrimoni in Cina, così ho deciso di ripescare i miei appunti universitari per scrivere qualcosa al riguardo.
Pare che in Cina sia frequente che i genitori obblighino i propri figli a sposarsi. Alcuni stabiliscono in anticipo chi sarà partner ideale per il figlio, dove andrà a vivere e a che età avrà il primo bambino.
I giovani che si trovano più sotto pressione sono quelli nella fascia tra i 25 e 35 anni. Questa violenza perpetrata nei confronti della libertà personale, forzando una persona verso un passo così importante nella vita (in Cina forse anche più che in occidente, visto che il divorzio è visto come una grave onta a livello morale), mi fa pensare alle storie romantiche di matrimoni combinati del passato e ad amanti che celavano il proprio amore proibito. Ma la realtà è molto meno cinematografica.
La giustificazione che i genitori danno al proprio comportamento insistente, e talvolta ossessivo, è qualcosa che vale la pena di riportare. “Io ti voglio bene, allora tu devi vivere come piace a me”, oppure, “con te sono sempre stata buona/o, mi aspetto che adesso tu lo sia con me, facendo quello che ti dico”.
Questo particolare meccanismo trova una spiegazione nei principi confuciani che sono sopravvissuti evolvendo nella società cinese moderna. Una peculiarità della realtà sociale cinese, infatti, è che nel tempo sono cambiate le abitudini alimentari e gli stili di vita, ma sono rimaste intatte le tradizioni. Mi riferisco principalmente alla pietà filiale (xiàoshùn 孝顺) che prevede che i figli si prendano cura e siano rispettosi nei confronti dei genitori (e degli anziani in generale). Si intuisce facilmente che un figlio sposato ha più possibilità di assistere adeguatamente i propri familiari. Oltretutto, quando sarà vecchio, potrà a sua volta contare sul sostegno dei figli (visto che non dare alla luce una progenie per il confucianesimo era, ed è, motivo di condanna morale).
La pietà filiale dovrebbe essere una regola morale rispettata in modo naturale, invece nel 2013 è persino entrata in vigore una norma sulla “protezione dei diritti e degli interessi degli anziani”. A dare vita a questo scontro tra genitori e figli è stata la stessa politica cinese con la legge sul figlio unico (abolita poi nel 2013) e con lo hùkǒu 户口 (uno status ereditario per via materna). Lo hùkǒu limita le migrazioni dalle zone rurali a quelle urbane, garantendo i servizi solo a chi risiede nella zona in cui è vincolato. Dunque, i genitori che insistono perché il figlio sposato trovi casa vicino, o viva con loro, trovano persino la legge dalla loro parte. Ecco che molti giovani cinesi, oltre a sgomitare per trovare un posto nel mondo, devono anche preoccuparsi di fornire ogni agio ai propri cari, nel rispetto della tradizione e delle leggi, subordinando la propria vita al bene dei genitori.
Sono in molti i giovani che protestano. C’è chi è sceso in piazza con manifesti. Chi ha rilasciato interviste dai toni contrariati, dichiarando che non farà visita al padre e alla madre durante le festività per evitare le loro lamentele. E c’è chi ha minacciato addirittura di togliersi la vita.
Ci si chiede giustamente chi delle due parti abbia torto: i genitori a pretendere sostegno, o i figli a reclamare la propria libertà?
Fonti:
Cina in Italia (世界中国电子杂志第132期)
Understanding Chinese Society – Norman Stockman
Questo articolo © Monique Namie
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