“L’Ergastolo Azzurro” di Alfredo Bonazzi

Di questo libro di poesie colpisce una cosa: nonostante sia stato scritto da una personalità galeotta (che ha vissuto gli orrori della guerra e ha commesso numerosi reati tra cui quello di omicidio) i testi sono delicati, anche quando parlano di sofferenze atroci, e mai volgari, anche quando esprimono concetti forti.

Ti erano compagni di quell’orgia
– ma tu dimenticali –
i giorni di buio e raccapriccio
e gli aciduli mattini
sulle labbra spaccate.
Su tutto: un sapore di fiale.
(da “Manicomio criminale“)

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Il libro non viene più pubblicato dall’inizio degli anni ’70. L’edizione che mi è stata gentilmente regalata cogliendo un’offerta speciale è del 1971. La prima parte, a cura di Teodoro Giúttari, presenta il racconto delle vicende del poeta, Alfredo Bonazzi, suddivise in vari capitoli e ricco di citazioni giornalistiche. Dal delitto commesso in un bar-tabaccheria del Viale Zara di Milano e relativo processo, si risale alla ragione del gesto setacciando la sua infanzia travagliata.
Tra le pagine sono raccolte e le tragiche esperienze degli anni della guerra e le crudeltà del manicomio criminale, dove droghe e calmanti venivano somministrati a uomini con polsi e caviglie legati da strette cinghie.
Il poeta ergastolano passa attraverso momenti difficili che lo portano sull’orlo del baratro. Allora scrive molte lettere che indirizza alle persone più disparate. Dalle sue parole traspare una forte insofferenza verso le norme civili: “[…] la società ha diritto di difendersi, è innegabile questo concetto: ad esseri che non vogliono adeguarsi alle sue leggi si aprono due vie: il carcere o essere sepolti”.
Più perizie psichiatriche confermano una sua seminfermità mentale. Egli viene precisamente definito “psicopatico di tipo epilettoide”. Lo stesso gesto omicida, per il quale  sarà condannato, viene da lui percepito come l’effetto di un attacco epilettico sorto per una concomitanza di eventi.
La parte più drammatica per me è stata il racconto della sua infanzia durante la guerra. Alfredo dichiara di aver identificato solo dopo anni di autoanalisi ciò che lo ha reso aggressivo: l’assenza di affetto. Da piccolo era molto legato alla figura della sorella Maria, che serbava per lui molte più attenzioni della madre. Dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Maria subì una violenza di gruppo mentre Alfredo fu costretto ad assistere senza poter far nulla. Quella fu forse la prima di una serie di episodi che contribuì a formare il carattere aggressivo e criminale di Bonazzi.
L’incapacità di adattamento deriva, molto probabilmente, dalle dure esperienze che gli hanno tolto la fiducia nel prossimo, rendendogli l’infanzia un inferno. In questa poesia, secondo me, vengono riassunte in modo efficace la sua storia e il suo pensiero:

In Nome del Popolo

Giudice, non potevi
né dovevi condannarmi
«In Nome del Popolo»
che ignora ogni cosa di me.
Io ho l’età delle caserme occupate
degli accampamenti improvvisi
delle rabbiose sventagliate
della rapidissima fine.

Linfa di pianta in germoglio
era il sangue che scorreva
nelle mie vene adolescenti
quando sepolto urlavo
agli angeli veloci del Popolo
di non incendiarmi più il cielo.
Che cielo, Giudice, che cielo!
Cavalcava bombe dirompenti
la morte, e mi vide da lassù
e si precipitò a incidermi
nel tenero piombo della memoria
il comandamento di Caino.
In Nome del Popolo
si fecero scorrere lacrime
dagli occhi di un ragazzo.

Ascoltami tu, Togato del Popolo!
Ho lasciato alle spalle una città
sventrata dalla tecnica
per dare un posto alla Metropolitana
e ho visto sangue e rovine
ai piedi dei grattacieli.
Ora mi dicono, scomparse le macerie,
i treni scorrono veloci
tra rivoli di luce.
Io sono ancora nella stretta selvaggia
dell’Ergastolo Azzurro
e vado raccogliendo i detriti
del mio mondo crollato
per farne un’arca di speranza.
Ho quattromila giorni di rimorso
ma non bastano a coprire
lo scavo profondo
del mio Viale senza Verde.
In Nome del Popolo
hai dovuto recidere i rami
al ciliegio senza frutto:
aiutami a non sentire il pianto
delle gemme non nate a primavera.

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Il poeta nella sua cella (retro copertina).

Tra riferimenti alla guerra e introspezioni del suo passato, appare chiara la protesta verso un mondo che l’ha deluso. Il poeta prende la forma di “ciliegio senza frutto” : il conflitto armato ha plasmato il suo essere in modo che quasi mai riuscisse a compiere azioni utili per la società. Tuttavia, quelle “gemme non nate a primavera” fanno supporre che dentro di lui ci fosse qualcosa di buono, e che solo le circostanze l’abbiano ridotto alla parte di “cattivo di turno”.
Gli anni della guerra sono ben chiari tra i versi. Chi ha letto la sua biografia può facilmente trovare dei collegamenti tra vita e immagini poetiche. Ecco, per esempio, emergere il ricordo di quando rimase bloccato sotto le macerie di un edificio bombardato: “sepolto urlavo / agli angeli veloci del Popolo / di non incendiarmi più il cielo”.
In un altro drammatico riferimento, racconta di come una scheggia gli procurò una grave ferita alla testa: [la morte] “mi vide da lassù / e si precipitò a incidermi / nel tenero piombo della memoria / il comandamento di Caino”.

L’inclinazione per la letteratura pare essere sempre stata nascosta in lui. In una lettera a Il Giorno, racconta della sua passione per la letteratura e di quando “si fermava incantato davanti alle biblioteche delle ville che saccheggiava”.
In carcere, Afredo riesce a trovare nella poesia conforto e nella fede speranza. Come spesso accade agli artisti, egli riesce a convogliare e sfogare la sofferenza esprimendosi in versi e creando quello che all’epoca divenne un vero e proprio caso che destava sia critiche che ammirazione.
Ho potuto notare alcune visioni ricorrenti nella poetica di Bonazzi, come una firma che rende facilmente identificabili le sue opere:
1-  “Quattro mura di carne”. Questa personificazione della cella lascia intuire che i carcerati, restando per anni lì dentro, perdono tra quelle pareti parte della propria vita diventano degli esseri inanimati.
2- “Radici di sbarre”. Un’immagine molto intensa che a me fa pensare al carcere come a una casa. Si dice “mettere radici” per dire che si è presa dimora stabile. Alfredo Bonazzi ha trovato forzatamente dimora dietro alle sbarre che lo ancorano sul posto come un albero immobilizzato dalle proprie radici.
3- Il lento scorrere del tempo espresso in molteplici modi. È facile immaginare come per un ergastolano il tempo assuma un significato particolare, un’importanza diversa.

Qui giocano con la calce
i fantasmi.

Sono solo macchie di tempo sui muri.
(da “Tu, scapigliato fiore“)
*

Qui ci sono
ventimila anni di attesa:
le pietre
costruiscono uomini impagliati
che non difendono le spighe dai passeri
e le formiche dal passo dei carcerieri.
[…]
Sulle ombre rampicanti
– è sera –
sbadigliano i ventimila anni di pietra.

(da “Ventimila anni di attesa“)

Concludo con una curiosità che, secondo me, rende più intrigante la figura di questa persona. Quando Alfredo Bonazzi fu graziato nel 1973 dal Presidente della Repubblica, ritrovata l’agognata libertà smise di scrivere poesie. E pensare che dal dicembre del 1969 all’ottobre del 1970 aveva vinto ben diciassette premi letterari! Qualcuno potrebbe pensare a un suo estremo atto truffaldino: imparare a scrivere poesie per commuovere e ottenere la grazia. Eppure, se il suo unico desiderio fosse stato quello di ritrovare la libertà, avrebbe potuto raggiungerla ben prima, quando un suo amico carcerato gliene diede la possibilità. Bonazzi, invece, si rifiutò di seguirlo, nonostante dovesse scontare ancora 20 anni di carcere. Ecco perché a me piace pensare che, con la serenità ritrovata dopo la grazia, non abbia più sentito il bisogno di sfogare l’angoscia in versi.


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11 pensieri riguardo ““L’Ergastolo Azzurro” di Alfredo Bonazzi

  1. Bellissima analisi, davvero!! Amo la poesia di Bonazzi, a cui avevo dedicato un articolo nel mio blog. Felice che ti sia piaciuto “quel” libro di cui avevo parlato 😀 E grazie al tuo articolo ho potuto apprezzare anche meglio alcune sue liriche 😀

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    1. Grazie! Sono contenta che la mia analisi ti sia sembra all’altezza. 🙂 Ricordo l’articolo che avevi pubblicato. Le poesie di Bonazzi mi sono piaciute moltissimo, avrei difficoltà a scegliere la mia preferita. Peccato che sia rintracciabile solo questa raccolta.

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      1. Continuerò a cercare…da quel che ho capito la raccolta è a sua volta un “Best of” di altre piccole raccolte. Sì, di Bonazzi è illuminante lo stile, davvero particolare…questa capacità di assemblare scorgendo affinità tra cose apparentemente lontane 😀

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          1. Ah qualcosa si trova! Avevo dimenticato l’esistenza della silloge poetica “Quel giorno di uve rosse”, per nulla rappresentata nella raccolta “L’ergastolo azzurro”. L’intera silloge – di ispirazione religiosa – venne anche musicata nel 1976 (uscì su vinile in stile musical) e su cartaceo è attualmente in catalogo (ristampata) nelle librerie…acquistai il il vinile due anni fa per farlo rippare. Un giorno trascriverò tutti i testi, ma qualcosa si trova già trascritto online, ad esempio “Ci ha tradito il vento”…i vari componimenti vanno tuttavia letti nella loro continuità:

            Ci ha tradito il vento
            che decora di muschio le pietre
            e sottomette gli alberi
            al dominio delle stagioni.
            Sembra tutto concluso
            ora che all’incenso manca
            la scintilla, il fuoco,
            le braccia disposte
            a profumare il giorno.
            Nessun’altra fede resta
            alla materia grezza di anime
            in penosa allegria.
            Ma dove, dov’è rimasta
            la Parola del Salmo
            che invogliava
            a sollevare lo sguardo
            al cielo troppo nudo?
            Tutto piano piano si fa dolore.
            Ma non è ancora buio:
            lungo tema d’amore,
            milioni di morti allineati
            si fanno linfa dentro la terra
            e si affacciano i bucaneve
            dalla fanghiglia dei rospi
            e mattini di luce
            chiamano in volo verso il sole
            uccelli stanchi di palude.

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