Racconto breve scritto per la Challenge Raynor’s Hall (speciale natalizia)
Tema: creare un titolo personalizzato in base alla propria data di nascita e da quello sviluppare la storia. Il mio titolo doveva contenere queste parole: “letterina, mattina, mondo dello Schiaccianoci, rosa”.
1917
“Caro babbo…”, quando il treno sferragliava veloce verso nord, sempre più lontano da casa e sempre più vicino al fronte.
“Caro babbo…”, quando la neve scendeva implacabile sulle Alpi, ricoprendo ogni cosa: quelle rocce ruvide, i corpi dei caduti, una granata inesplosa.
“Caro babbo, mamma ha detto che la posta al fronte può smarrirsi, allora ti scrivo subito. Ti consegnerò la lettera prima che tu parta”.
Le mani chiuse a coppa davanti la bocca, Francesco Casadei cercava di riscaldarsi dal freddo di dicembre. Raggomitolato in un angolo della trincea, si sentiva debole, sul punto di piangere. I trentadue anni trascorsi nell’agio della pace sembravano volati in un attimo da quando aveva cominciato a convivere col fischio dei proiettili nemici.
Lui faceva parte della Milizia Mobile, che per la maggior parte del tempo restava in seconda linea. Qualche giorno prima, tuttavia, gli era stato affidato il compito di portare in prima linea un carico di approvvigionamenti. Era partito con una decina di commilitoni e cinque asini da soma carichi di rifornimenti giungendo infine nelle postazioni della prima linea. Qui vi erano i soldati più giovani, ventenni con appena qualche filo di barba, volti di ragazzini sui cui occhi restava impresso troppo presto l’orrore della morte. Aveva stretto amicizia con qualcuno di loro.
Gli asini erano stati legati in uno spiazzo protetto, punto di collegamento tra due trincee. Quel posto era diventato un luogo di ritrovo abbastanza conteso. Gli animali producevano calore, per questo spesso vi si riunivano attorno gruppetti di soldati. Era stato lì che aveva conosciuto Roberto. I più restavano chiusi in un mutismo forse dovuto alla disperazione, o forse all’invidia per la sua posizione avvantaggiata. Roberto, invece, non provava sentimenti negativi e l’aveva accolto subito come un fratello.
Francesco non riusciva comunque a dare torto a chi gli era ostile. In effetti quello non era il suo posto. La prima linea non era affar suo, nulla gli era familiare lì, la guerra stessa non era cosa per lui, perché aveva un carattere troppo docile. La gentilezza non aiuta a sopravvivere in battaglia.
Sta di fatto che era arrivato lì con l’idea di scaricare i rifornimenti e tornare indietro nella stessa giornata, ma l’avanzata del nemico aveva chiuso la via d’accesso per tornare all’accampamento della Milizia Mobile più a valle e quindi si era ritrovato bloccato in trincea. Capitavano spesso situazioni del genere, gli avevano detto, non c’era da preoccuparsi. La linea avanzava di qualche metro, poi retrocedeva per essere di nuovo riconquistata giorni dopo. Era come un moto ondoso, una fluttuazione perpetua. Tra un’onda e l’altra c’era la terra di nessuno: un nastro scolorito di rocce frantumate dalle bombe, qualche cespo d’erba, un po’ di brina.
Roberto era un ragazzino di ventun anni con i capelli ricci e biondi. «Se procede così, domani potrai spostarti nella Galleria Vittorio Emanuele III». Gli era arrivato di fianco correndo e sembrava così contento di aver portato quella notizia. Ma Francesco evidentemente non l’aveva accolto con l’entusiasmo che l’altro si aspettava. «Non capisci? La galleria corre per chilometri sotto le montagne. Potrai tornare indietro dal tuo battaglione!» Gli tirò una pacca sul braccio. «E un giorno potrai rivedere la tua famiglia, tua figlia Rosa.»
A quelle parole l’uomo si scosse e mise una mano sul fianco, all’altezza della tasca dove conservava la letterina della figlioletta. Dal taschino superiore della divisa, invece, sbucava appena la testa di un soldatino Schiaccianoci. Sua moglie Adele gliel’aveva affidato il giorno della partenza. «Vorrei che potesse proteggerti», gli aveva detto. Qualcuno di estraneo poteva giudicarlo un dono banale o addirittura di cattivo gusto. In realtà, quella statuetta di legno, alta circa dieci centimetri e dipinta a mano, nella famiglia di lei aveva un grandissimo valore affettivo. Era un oggetto che aveva sostato in molte mani, di generazione in generazione. Una lontana antenata di Adele viveva nella zona dei Monti Metalliferi e aveva visto di persona la nascita di quell’oggetto creato allora per protesta contro le vessanti tasse.
Francesco prese lo Schiaccianoci e se lo rigirò tra le dita. Gli avevano dipinto un sorriso beffardo che sembrava quasi un ghigno. «Domani forse ci mettiamo al riparo, eh?» Dalla statuetta non arrivò risposta.
«Se ti metti a parlare con quel coso sei messo davvero male», lo stuzzicò Roberto.
«Hai ragione. La guerra, se non ti uccide, ti fa impazzire», gli rispose. «Ma ora pensiamo a qualcosa di più allegro». Rimise in tasca lo Schiaccianoci e recuperò la gamella col rancio.
Il fango sul fondo della trincea si stava ghiacciando. La temperatura stava calando rapidamente e la neve, che già cadeva sulla fascia alpina, sarebbe potuta arrivare a una quota più bassa, toccando le Prealpi e quindi Cima Grappa.
*
La mattina seguente si rivelò insolitamente silenziosa e cupa, e tremendamente fredda. La neve iniziò a scendere all’alba e in poco tempo imbiancò tutto. Non si udivano più gli scoppi dei cannoni, le mitragliatrici tacevano, non uno sparo, non un ronzio di proiettile nell’aria, nulla.
“Caro babbo, sulle montagne dove andrai sarà freddo? Ci sarà la neve? Vorrei poter venire con te. Lo so che è pericoloso perché scoppiano le bombe… Non sarebbe bello se anziché combattere con le armi si combattesse con la neve? Nessuno si farebbe mai male.”
Il fiato caldo si condensava in nuvole di vapore. Le dita rattrappite lisciavano la carta rosa della letterina della figlia. Sua madre, in quanto maestra, l’aveva di certo aiutata nella stesura e forse anche nella scelta del colore.
Quella mattina il vento sferzava selvaggio il viso dei soldati e si aveva come la sensazione che qualcosa d’imminente stesse per accadere. Francesco teneva la tazza tiepida del caffè annacquato ben stretta nel tentativo di riscaldarsi un poco le mani intorpidite. Poco dopo il caporale maggiore arrivò a dare la notizia.
«Pronti a scavalcare la trincea fra cinque minuti, al mio segnale!»
Si allontanò di nuovo per chiedere l’ennesimo rapporto alle vedette, per assicurarsi che la situazione favorevole fosse rimasta immutata.
La notte, Francesco non era riuscito a chiudere occhio e aveva, perciò, ascoltato i discorsi di chi era di guardia. Si diceva che avrebbero tentato un’avanzata l’indomani e allo stesso tempo quelli della Milizia Mobile avrebbero potuto uscire per raggiungere il battaglione d’origine.
Prima di andare voleva salutare Roberto, ma quando l’aveva trovato, l’amico gli aveva detto che avrebbe fatto una parte del percorso con lui, per cui non c’era bisogno di dirsi addio.
Il caporale maggiore tornò dal giro di ricognizione. La sua voce tuonò potente echeggiando tra i monti. Al segnale, una squadra di uomini in divisa grigio-verde uscì dalle trincee arrampicandosi sulla roccia.
“Caro babbo, prometto che in tua assenza sarò ubbidiente e aiuterò mamma nelle faccende di casa. Abbi cura di te e torna a casa presto.
Ti voglio bene
Tua figlia Rosa”
Trovandosi allo scoperto, per istinto, si misero tutti a correre. La neve scricchiolava sotto gli scarponi e i fiocchi si attaccavano al viso. Qualche metro più in là, con la coda dell’occhio, Francesco vide un compagno inciampare e cadere rovinosamente. Roberto correva di fianco a lui, ma a qualche manciata di passi dalla galleria della salvezza non lo vide più. Quando si girò lo scorse a terra. Tornò per aiutarlo e si accorse che aveva del sangue in testa e il suo elmetto era volato via. Mentre cercava di soccorrerlo si rese conto di qualcosa di tremendo. Altri commilitoni cadevano malamente a terra e restavano inermi tra la neve, come se all’improvviso fosse mancata loro la forza alle gambe. Solo poi sentì gli spari. Perché prima non li aveva sentiti? La foga della corsa, forse, o il cuore che gli batteva assordante nei timpani.
«Cecchino!», urlò ai suoi compagni perché si mettessero al riparo.
Roberto, con i suoi riccioli biondi sulla fronte, sembrava un angioletto caduto dal cielo dopo che le sue ali avevano smesso di funzionare.¹ Un attimo dopo, una forza improvvisa e sconosciuta colpì Francesco al petto spingendolo all’indietro. Cadde sulla schiena tormentato da un dolore lancinante. La vista gli si annebbiò e riuscì per un ultimo istante a pensare alla sua famiglia.
Da un punto imprecisato risuonava il ritmo martellante di una mitragliatrice.
Quando Francesco riprese conoscenza, gli sembrava trascorsa un’eternità, ma sentì la neve sul viso e sulle mani scoperte e capì di essere ancora sul campo di battaglia. Aprendo bene gli occhi si accorse di avere di fronte un soldato con la giubba rossa chinato su di lui. Quel colore lo mise subito in allarme, poi ricordò che le uniformi della cavalleria austroungarica avevano solo i pantaloni rossi, mentre la giacca doveva essere azzurra.
«Alzati!» disse il soldato in tono perentorio.
«Sono ferito», rispose Francesco.
«No. Io sono ferito», replicò l’altro puntandosi un dito verso il petto.
Francesco rimase inorridito. Il soldato dalla giubba rossa all’altezza del cuore aveva un buco largo all’incirca come un palmo di mano che lo trapassava da parte a parte. Gli si poteva vedere attraverso la neve che cadeva sulle pendici dei monti alle sue spalle.
Ad un certo punto quel milite estraneo allungò un braccio e Francesco non riuscì a sottrarsi alla sua presa. Fu trascinato in piedi con grande forza. Il dolore lancinante al petto tornò prepotente e si ritrovò a lamentarsi stringendo i denti. All’altro sembrava non importare niente, continuava a strattonarlo verso la galleria e solo quando si trovarono al riparo lo lasciò andare.
«E tu preferivi rimanere steso sulla neve!» disse lo sconosciuto accennando una smorfia.
«A che esercito appartieni? Non ho mai visto una divisa tale.»
«Sono un soldato Schiaccianoci», sentenziò.
A quelle parole, Francesco si tastò subito la giacca.
«Cerchi il soldatino di legno che avevi in tasca? L’hai perduto là fuori quando sei caduto.»
*
“Adorata moglie,
Ti scrivo poche righe veloci per dirti che sto bene e presto tornerò a riabbracciare te e nostra figlia Rosa. Al momento mi trovo nell’infermeria del campo. Sono ferito, ma non devi stare in pensiero perché è cosa da poco. Il medico mi ha diagnosticato una frattura costale e prescritto un periodo di riposo di qualche mese. Se sono ancora vivo è merito di un compagno che mi ha aiutato. È una storia misteriosa e talvolta penso a lui come a uno spirito venuto in soccorso grazie alle tue preghiere. Come uno spirito è svanito nel nulla. L’ho perso di vista mentre ci stavamo recando ambedue in infermeria.
Alcuni miei amici non sono stati così fortunati, come Roberto, che era così giovane ed è caduto a pochi passi dalla salvezza. Lo rimpiangerò sempre, assieme a tutti i poveri compagni morti da eroi per la patria.
Mi dispiace informarti che ho perduto il portafortuna che mi desti e che rappresentava per te un caro ricordo di famiglia.
Di’ a Rosa che conservo la sua letterina in tasca e la rileggo ogni volta che posso per sentirvi tutt’e due più vicine. Fra poco tornerò da voi.
Un carissimo saluto e tanti baci,
Francesco Casadei”
*
Ai giorni nostri
Verso mezzogiorno si erano fermati al rifugio Bassano per rifocillarsi. Un’ora dopo i due giovani si stavano inoltrando in una zona fuori dal sentiero segnato sulle pendici del monte Grappa.
«Prima o poi salteremo per aria», disse il ragazzo che portava sulle spalle lo zaino con l’attrezzatura. Aveva finalmente dato sfogo a un pensiero che gli balenava nella mente da un po’.
«Non sono rimasti ordigni inesplosi in questa zona», lo rassicurò quello con la mappa in mano. «E poi nessuno ti obbliga. Se non te la senti, la prossima volta stai a casa.»
I due si lanciarono uno sguardo di sfida, poi l’altro ribatté: «Ho fatto una semplice costatazione. Se non ci volevo venire te l’avrei detto. È adrenalinico scavare granate inesplose», scherzò. Subito dopo si fermò e tolse lo zaino dalle spalle. «Montiamo il bastone da rabdomante.»
Non avevano un permesso e, infatti, per non dare nell’occhio erano arrivati nella zona turistica con il metal detector smontato. Una volta riassemblato il tutto, si misero a perlustrare la zona palmo a palmo. Trovarono alcuni oggetti interessanti: bottoni di giubbe militari, un elmetto, delle vecchie monete. Verso la galleria Vittorio Emanuele III, quando stavano per deviare, per non avvicinarsi troppo al percorso turistico, il metal detector suonò di nuovo. Si accucciarono e iniziarono a scavare adagio con la paletta da giardino che si erano portati appresso. Ed ecco sbucare un pezzo informe sporco di terra. «Che roba è?»
«Boh, sembra di legno, non avrebbe dovuto segnalarlo.»
Dopo avergli dato una ripulita versandogli sopra un po’ d’acqua della borraccia, l’oggetto diventò più familiare. Era un soldatino Schiaccianoci. Una volta doveva essere stato dipinto con colori sgargianti, ma ora era pallido e scrostato. Lo misero nella borsa assieme agli altri ritrovamenti, senza accorgersi che aveva piantato nel petto un proiettile. Era quello che aveva fatto suonare il metal detector: un proiettile vecchio più di cent’anni esploso dal fucile di precisione di un cecchino austroungarico e destinato al cuore di Francesco Casadei.
Fine.
Nota
1* Citazione rielaborata di una frase estratta dal libro “Mondo Piccolo. Don Camillo”.
“Una letterina rosa, la mattina, nel mondo dello Schiaccianoci”
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ottima creatività letteraria e buon stile narrativo, molto brava! 😉
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Grazie Max, cerco di migliorare sempre più.
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Bellissimo racconto! A parte che non mi aspettavo per niente qualcosa del genere, quindi hai saputo sorprendermi. Ma l’intreccio è stato costruito molto bene. Brava!
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Grazie! In quel periodo percepivo poco spirito natalizio, quindi mi è venuto un racconto storico sulla guerra. Felice che ti sia piaciuto 😊
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Sì, ti capisco. Anch’io non ho sentito molto lo spirito natalizio quest’anno
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