
Titolo originale: Чернобыльская молитва (Černobyl’skaja molitva)
Titoli inglesi: Voices from Chernobyl: The Oral History of a Nuclear Disaster / Chernobyl Prayer: A Chronicle of the Future
Titolo italiano: Preghiera per Černobyl’
Autrice: Svetlana Aleksievič
Prima pubblicazione: 1997
Nel 2011, dopo il disastro nucleare di Fukushima, l’autrice, Premio Nobel per la letteratura 2015, ha aggiunto una prefazione in cui si percepisce una sinistra rassegnazione.
“Pensavo di aver scritto del passato. Invece era il futuro.”
Di Fukushima l’autrice scrive: “Gli addetti alla centrale si sentivano demiurghi. Padroni del mondo. Mi chiesero di Černobyl’. Ascoltarono la risposta e mi sorrisero, partecipi. Da noi non potrà mai accadere, dissero. Neanche se un aeroplano ci si schiantasse contro. Neanche con un terremoto di magnitudo 8. Questa volta, però, e per la prima volta nella storia del Giappone, il terremoto è stato di magnitudo 9. L’uomo di oggi non vuole ammettere di non essere onnipotente.”
È recente la notizia che l’acqua contaminata usata per raffreddare i reattori giapponesi danneggiati sarà rilasciata nell’oceano Pacifico. E l’acqua radioattiva, seppur diluita e filtrata, si disperderà in un oceano che ci connette tutti e da cui i popoli pescano per nutrirsi.
“Mi balenano nella memoria articoli di giornali: le nostre centrali nucleari sono assolutamente sicure, se ne potrebbe tranquillamente costruire una sulla Piazza rossa, presentano meno rischi di un samovar.”
Preghiera per Černobyl’ si può definire in diversi modi: “romanzo-oratorio”, “romanzo testimonianza”, “il popolo si racconta”, “prosa epico-corale”. Sono tutte definizioni che indicano una pluralità di voci narranti. Il Maestro che ha portato Svetlana a far suo questo metodo di racconto è Ales’ Adamovič. Nella postfazione dedicata alla vita dell’autrice, Sergio Rapetti cita parte di un’intervista a Svetlana: “Ho cercato lungamente me stessa, volevo trovare qualcosa che mi avvicinasse alla realtà, ero tormentata, ipnotizzata, appassionatamente incuriosita proprio dalla realtà. Afferrare quanto vi è di autentico, ecco cosa volevo. E ho assimilato all’istante questo genere, fatto delle voci di uomini e donne, di confessioni, testimonianze e documenti dell’anima delle persone.”
Leggere questo libro mi è stato utile, tra le varie cose, soprattutto per capire un po’ di più l’essere umano. Una sola parola non contiene il senso profondo del suo significato. Bisogna vivere la storia attraverso i racconti di chi ha visto e vissuto. Se, per esempio, mi metto a parlare di povertà, qualcuno che ne è totalmente estraneo non può capire, perché dentro la parola “povertà” non c’è un transfert emotivo di ciò che la povertà significa mentalmente e fisicamente. Lo stesso vale per la parola “radiazione”; chi ne è estraneo non potrà sapere davvero cos’ha provato chi l’ha vissuto.
Prima di leggere questo libro, quando sentivo nominare Černobyl’, il più delle volte percepivo un brivido che era un mix tra orrore e fascino. Ora sento che qualcosa è cambiato, c’è sempre il binomio orrore-fascino, ma si è aggiunto qualcosa. Se prima trovavo allettante la prospettiva di visitare quei luoghi come se si trattasse di una parentesi post-apocalittica nel mondo, ora non riesco a non pensare alle storie dei residenti non autorizzati, dei liquidatori, delle madri che hanno partorito un figlio deforme senza che venisse riconosciuto loro che la colpa era delle radiazioni.
Adesso, nella mia mente, le parole “Černobyl’” e “radiazione” hanno acquisito qualcosa di più sinistro e spaventoso. Qualcosa che prima conoscevo teoricamente, ma che ora percepisco diversamente, forse a un livello più profondo ed empatico.

L’autrice, dunque, raccoglie e trascrive innumerevoli testimonianze: i racconti provenienti da persone diverse tra loro per cultura e ideali. Storie di residenti non autorizzati che sono rimasti nelle zone interdette perché ad alta concentrazione radioattiva. Si scopre che queste persone che sono rimaste sono, in qualche modo, degli emarginati. Anziani che non trovano pace da nessuna parte se non nel luogo in cui sono nati, e immigrati fuggiti dagli scontri armati in Tagikistan e in Chirghisia.
Svetlana mette insieme anche le testimonianze dei liquidatori e dei soldati di vari gradi che sono stati reclutati per andare a ripulire la zona vicino alla centrale. Molti dei soldati erano stati in Afganistan, dove la morte non era invisibile e una volta tornati a casa si aveva la certezza di essere sopravvissuti. A Černobyl’ la morte non si vede e una volta tornati a casa, con una dose di röntgen in corpo mai certificata, non c’era modo di sapere quanti mesi o anni si sarebbe ancora vissuti. Chi si tirava indietro giustificandosi con la propria giovane età e il fatto di non aver ancora avuto figli, veniva rimproverato, punito e la sua carriera era finita. Ma almeno aveva salva la vita.
“Nei giorni immediatamente successivi all’incidente dalle biblioteche sono spariti i libri sulla radiazione, su Hiroshima e Nagasaki e persino sui röntgen.”
Ecco la voce del liquidatore che vuole solo tornare a casa il più presto possibile, e quella di un altro liquidatore che, invece, è come affascinato e desidera ardentemente salire sul tetto del reattore come andare incontro a qualcosa di meraviglioso. Ecco la giornalista che racconta tutto senza censura perché vuole che ne venga fuori un libro onesto. Ecco il comunista convinto che ha creduto ciecamente ai suoi superiori che dicevano che non c’era pericolo e ancora difende il partito. Ed ecco le molte donne con i loro bambini che per lo più sono tristi e malati. Questi giocano con le bambole “all’ospedale”, fanno loro punture, mettono loro il termometro e se una bambola muore, viene coperta con un lenzuolino.
“Quando è nata… non era una bimba, ma un sacchettino vivente, chiuso da ogni lato, senza nessuna apertura, solo gli occhietti erano aperti.”
Non c’è molto da dire sullo stile di questo “romanzo di voci”; l’autrice ha trascritto fedelmente i racconti in forma colloquiale, frammentata. La scelta dell’ordine in cui le testimonianze sono riportate è interessante. I racconti di apertura e di chiusura hanno una forza evocativa e un’intensità incredibile. Il racconto che apre il libro è quello di Ljudmila Ignatenko, moglie del defunto vigile del fuoco, Vasilij Ignatenko, due personaggi che chi ha guardato la miniserie Chernobyl conosce bene. La voce solitaria di Ljudmila non sa se raccontare della morte o dell’amore e finisce per parlare di entrambe. Il libro si conclude con un’altra voce solitaria, quella di Valentina Timofeevna Panasevič, moglie di un liquidatore che fu mandato a staccare l’elettricità dai villaggi evacuati. Il grido di dolore di Valentina è molto simile a quello di Ljudmila: l’amore, la morte e come la radiazione trasforma fisicamente il corpo dell’amato.
“La gente che viene qui sembra in visita a un cimitero… Il mondo dopo la tecnologia… Il tempo ha cominciato a scorrere all’indietro… Qui non sono sepolte le loro case soltanto, ma tutta la loro epoca.”
Se uno scienziato prende l’iniziativa di avvisare la popolazione non ancora evacuata, in qualche modo viene fatto tacere. Accusato di pazzia o di antisovietismo. La motivazione superficiale è quella di non procurare allarmismo, quella più vera e profonda riguarda il potere politico.
Dovrebbero far leggere questo libro ai governanti di tutto il mondo. E se dopo averlo letto, uno di questi resta indifferente, vuol dire che non merita la posizione di potere in cui si trova e che il rischio di un’altra Černobyl’ è concreto.
Sarebbe ancora meglio rileggere questo libro ogni due o tre anni, perché la mente umana tende a rilassarsi e ridimensionare col tempo. Penso che il referendum sul nucleare del 2011 avrebbe avuto un esito un po’ diverso se qualche mese prima non fosse successo il disastro di Fukushima.
PS: Negli anni ’90 dei miei zii avevano ospitato per più volte una bambina di Černobyl’ a casa loro. Il progetto di ospitalità, che credo sia attivo ancora oggi, prevedeva che ai bambini fosse dato alloggio per un periodo di almeno 30 giorni. L’obbiettivo era quello di offrire la possibilità ai più piccoli di vivere per un po’ in un ambiente non contaminato e permettere all’organismo di “disintossicarsi” dalle radiazioni.
Approfondimenti
I “romanzi di voci” di Svetlana Alexievich (Premio Nobel per la Letteratura 2015)
© MONIQUE NAMIE
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Un bel gesto quello dei tuoi zii. Ogni volta che penso a disastri del genere e alle vite sacrificate o distrutte negli anni, mi sento male 😢
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Ti capisco, a un certo punto mi sono sentita male anche solo leggendo le testimonianze riportate in questo libro.
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spesso molte verità non vengono mai a galla, o se appaiono sono sempre camuffate da altre informazioni. Libri che sanno raccontare delle verità sconosciute, scomode per molti, sono sempre ben apprezzati, quindi immagino che questa lettura faccia riflettere parecchio sulle tante tragedie non dette che si compiono nel mondo ogni giorno..👍
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È un libro-denuncia davvero molto utile scritto con le parole dei testimoni che hanno vissuto in prima persona.
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Ce l’ho in lista da tanto, aspetta il suo momento.
Durante la mia carriera scolastica, mi è capitato spesso di vedere classi di bambinз/ragazzз ospitate dalla mia scuola.
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Interessante. Non sapevo che ospitassero anche delle classi a scuola.
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Sì, venivano con lз insegnanti, ma non so dirti se erano ospiti di varie famiglie o in qualche struttura di proprietà del comune.
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Molto bello e tutto interessante, come spesso le cose che riguardano quella tragedia. Ma mi ha colpito soprattutto il discorso sul “transfert emotivo”. Mi sembra che pochi oggi, in una realtà rarefatta virtualmente, si rendano conto della differenza tra vivere una tragedia o parlarne (o studiarla), e come al solito la narrativa è utilissima da questo punto di vista, perché da voce al vissuto. Una filosofa italiana ha scritto a questo proposito: “per fare brevemente la differenza, pensiamo al pane per la gente affamata o alla droga per quella intossicata. Per costoro pane o droga si associa a tutto e prende così un enorme significato. Non è però un significato metaforico, che prevale invece nel linguaggio degli altri, i pasciuti e i tossicoindipendenti”. Gianluca
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Il “transfert emotivo” è qualcosa che ho preso in prestito dal film di Star Trek. Spock mette due dita sul viso del suo amico Kirk per raccontargli mentalmente ciò che ha vissuto e così gli trasferisce involontariamente anche le emozioni che ha provato in quei momenti. Noi non abbiamo la capacità mentale di Spock, ma chi sa scrivere bene si avvicina un po’ ad avere questa qualità di trasferire le emozioni in chi legge.
Citazione interessante. Grazie per il commento.
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“Lo stesso vale per la parola radiazione: chi ne è estraneo non potrà sapere davvero cos’ha provato chi l’ha vissuto.” Sono totalmente d’accordo.
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