“Fiore di roccia” di Ilaria Tuti

Titolo: Fiore di roccia
Autrice: Ilaria Tuti
Prima pubblicazione: 2020

Ho scelto di dedicarmi alla lettura di questo libro per un duplice motivo: l’ambientazione durante la Prima guerra mondiale e l’idea di trovare delle donne forti come protagoniste (le portatrici carniche).
Fiore di roccia è un altro nome della più nota stella alpina, una pianta all’apparenza delicata, ma capace di crescere e sopravvivere tra le rocce. Il paragone tra questo fiore e le portatrici è immediato.
Siamo tra le montagne del Friuli e precisamente in Val Bût, durante la Grande Guerra. Agata Primus è la narratrice, e una delle volontarie che portano rifornimenti al fronte (cibo, munizioni, lettere…) scalando le montagne con ai piedi le scarpetz e una pesante gerla sulla schiena. Agata e le sue compagne dimostrano una forza interiore incredibile. L’autrice usa parole come “forza quieta”, “forza pacifica”, “forza morale”, per esprimere una forza che viene dal cuore più che dai muscoli.
Quando agata riesce ad affrontare il capitano del comando con pochi eleganti gesti e un’unica frase è impossibile per me non provare ammirazione e annoverarla subito tra le mie eroine preferite.
“In verità, amo le parole, ma l’istinto è quello di custodirle. Ho imparato a maneggiare la loro arte, ma dentro di me è ancora salda la convinzione che alcuni, pochissimi, sentimenti non abbiano bisogno di suoni e non richiedano dialettica. Si espandono nei gesti, cantano nei sensi.”

Lo stile di Ilaria Tuti è molto piacevole e raffinato. Intenso a livello emotivo più che per le descrizioni forti, perché il lirismo smorza l’orrore della guerra. Anche dove potrebbe esserci una scena raccapricciante l’autrice si concentra sul lato emotivo facendo prevalere la malinconia della passione e del dolore. Riesce a portare la grazia della poesia in un luogo dove regna morte e sofferenza. Immagini di orrore si alternano a riflessioni e a esternazioni emotive che ho percepito come pennellate di luce nel cupo quadro della guerra.

Il lago con sembianze di vetro e non d’acqua, imprigionava uomini nelle sue trasparenze, alimentato da fiumi infernali e ghiacciato dal vento delle ali di Lucifero.”

“«Domani sarò ancora qui» promette, sparendo nel mondo angusto delle trincee. Vorrei chiedergli dove e quando lo troverò, ma taccio. Non era con me che stava parlando, ma con Dio.

Ad ogni risalita verso il fronte con nuove provvigioni, le portatrici, e Agata in particolare, si ritrovano ad affrontare nuove emozioni e nuove richieste. I soldati e il comandante Colman iniziano a portare loro il dovuto rispetto, talvolta riponendo in queste donne cieca fiducia e affidando loro incarichi che possono cambiare le sorti di un intero reparto.

Ad un certo punto inizia anche il racconto in terza persona di un tiratore scelto, Ismar, appartenente all’esercito nemico. I cecchini il comandante Colman li definisce così: “Figli di Cecco, Imperatore di Austria-Ungheria.” Il termine “cecchino” infatti deriva da “Cecco Beppe”, soprannome con cui era noto l’imperatore Francesco Giuseppe I d’Austria.
Ismar si muove tra i boschi in avanscoperta e talvolta si rintana nella sua postazione, su una parete rocciosa che offre un’ottima visuale sulla spianata sottostante. Gli capita di sentire voci di donne (le portatrici) che passano cantando sul sentiero angusto sopra la sua testa. Un giorno, mentre si aggira tra i boschi riesce a vederle, ma è una visione così insolita e inconcepibile per la sua mente, che le crede un miraggio. Per due volte toglie il dito dal grilletto quando avrebbe potuto fare fuoco. E così i movimenti del diavolo bianco, Ismar, per un po’ scorrono paralleli ai movimenti raccontati in prima persona da Agata. Finché le due strade un giorno si incontrano bruscamente e i due vedono i propri destini unirsi pericolosamente.

Non c’è atto d’amore o d’odio che non renda schiavi”.

Agata assomiglia un po’ a Trina, la protagonista di “Resto Qui” di Marco Balzano, ma per certi versi è anche il suo opposto. Sono entrambe figlie della montagna e hanno una cultura sorprendente per essere donne povere che vivono durante una guerra (Agata durante la Prima guerra mondiale, Trina durante la Seconda). Entrambe dimostrano una forza morale superiore a quella di altre, indipendenti al punto da non cercare per forza di trovare marito. Dall’altra parte Trina non se ne andrà mai da Curon, mentre Agata viaggerà molto e ovunque.
Agata vive nella miseria e con quel poco che ha deve prendersi cura anche di un padre che ormai non parla e non si muove più da tempo. Come se non bastasse, un pretendente ossessionato da lei in modo malato la spia e le distrugge il misero raccolto dell’orto per vendicarsi di averlo respinto.
Probabilmente Agata è un personaggio così eroico e stoico da sembrare irrealistico. Arriva al fronte dopo una dura scalata e il suo unico pasto del giorno è una mezza patata. È troppo colta per essere una contadina e molto presuntuosa per una donna dell’epoca. Forse non è credibile come personaggio storico reale, ma è stata in grado di farmi sognare e di farmi avvicinare maggiormente all’idea di vita che conducevano i soldati al fronte. Ogni volta che tornerò tra le Alpi, nei sentieri costeggiati dai resti delle trincee non potrò non pensare ai personaggi di questo libro, con cui è facile simpatizzare, e al coraggio e alla paura che devono aver provato le vere persone che durante la Grande Guerra sono passate di lì.

Per buona parte del racconto si percepisce la passione e l’ispirazione con cui l’autrice ha scritto questo romanzo, attingendo alle molte informazioni ottenute da scrupolose ricerche. L’unica pecca, secondo me, è la parte finale dove gli eventi sono narrati in un modo più veloce e sbrigativo. Il momento di tensione più alto termina bruscamente lasciando col dubbio di cosa sia realmente accaduto in seguito da aver rigirato totalmente le sorti del destino della protagonista. E questa omissione sembra una trovata per concludere presto una scena da cui l’autrice non riusciva a sbrogliarsi.

Quel che impreziosisce il racconto, oltre al lirismo della narrazione, sono i dettagli reali di cui ci parla l’autrice nella sua nota finale. Per citarne alcuni: vi fu veramente un prete che dal pulpito lanciò l’appello alle donne di portare soccorso ai soldati. Una truppa di alpini conquistò davvero una vetta indossando le scarpetz per muoversi senza farsi sentire. Un cecchino nemico teneva sotto scacco gli italiani finché non fu mandata una spedizione armata di bombe a mano a stanarlo. Non fu mai trovato, ma da allora smise di colpire. Forse fu ucciso, ma nel libro il diavolo bianco smette di colpire perché trova Agata.
Ma credo che la storia vera più toccante sia quella di Maria Plozner Mentil, dalla quale l’autrice ha preso ispirazione per creare la figura di una delle compagne di scalata di Agata. Maria era una giovane portatrice madre di alcuni bambini che un giorno fu colpita mortalmente da un cecchino e che ora riposa al Tempio Ossario di Timau fra gli eroi del Pal Piccolo.


© MONIQUE NAMIE
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