Louis, martire della scienza nel 1946

Dedico un’ultima pagina a questo scienziato semisconosciuto che nel mese di maggio del 1946 perse la vita. Tra tutti gli articoli che ho letto su Louis Slotin, ce n’è uno del 1948 che mi piace particolarmente perché è più personale degli altri. È quello del Brooklyn Jewish Center Review scritto da Phil Glanzer che mi appresto a tradurre. Questo tipo di articoli mi piacciono perché aiutano a delineare un pochino meglio il carattere del personaggio storico. Per esempio, qui Sam, il fratello minore dello scienziato, dice che Louis era una persona testarda, ma buona. A riprova della sua cocciutaggine ci sono almeno un paio di aneddoti storici:

1 Voleva entrare nella Royal Air Force, ma chi aveva problemi di vista non poteva. Louis toglie gli occhiali, facendo credere di avere una vista perfetta, e ci va lo stesso. Si fa qualche volo nel cieli spagnoli a bordo di un caccia, finché il medico non si accorge di essere stato raggirato.

2 Un venerdì pomeriggio Louis voleva ricalibrare qualcosa nel reattore di Oak Ridge. Il fisico K. Z. Morgan, che all’epoca lavorava con Slotin, disse che dopo lo spegnimento del reattore bisognava aspettare almeno 48 ore perché le radiazioni nell’acqua scendessero. Quando tornò il lunedì mattina, scoprì che Louis si era messo in pantaloncini e stava facendo la calibrazioni immerso nell’acqua leggermente radioattiva.[1]

Ogni volta che ripenso a questi due eventi mi viene da sorridere. Louis, che personaggio!


Traduzione dell’articolo del Brooklyn Jewish Center Review scritto da Phil Glazer nel 1948.

Martire della bomba atomica

Alla recente cerimonia a New York è stato presentato un premio alla famiglia del Dott. Louis Slotin, 35enne fisico canadese, che recava il seguente tributo:

“Martire della Scienza nel 1946”

Il dott. Slotin ha dato la vita e salvato dalla morte sette colleghi ricercatori scientifici dopo un incidente in laboratorio nel centro di assemblaggio di bombe atomiche a Los Alamos, New Mexico, nel maggio 1946.
È vissuto per soli nove giorni dopo l’incidente, ed è stato cosciente per i primi sette. Per il bene della famiglia ha tenuto segreto il triste fatto che sarebbe morto. Ha finto di avere la certezza che si sarebbe ripreso. Anche durante i suoi ultimi due giorni di coma e delirio quella messinscena è sopravvissuta nel suo subconscio.
La mattina del 21 maggio 1946, Slotin aveva convocato il suo gruppo per portare a termine un esperimento di laboratorio affidato alla sua direzione. Nel pomeriggio sarebbe partito per Los Angeles. Era diretto al test atomico a Bikini. Le sue valigie erano già pronte.
«Perché non te ne vai e lasci che ce ne occupiamo noi?», gli aveva chiesto un collega. «No», aveva risposto Slotin, «se vi dovesse succedere qualcosa, non me lo perdonerei mai. Le vostre mogli non me lo perdonerebbero mai. Mentre io sono troppo occupato per trovarmi una moglie».
Sapeva che quello era il punto cruciale dell’esperimento. In una certa quantità, l’Uranio 235 e il plutonio sono innocui. È quando una massa aumenta fino a un punto definito che diventa l’esplosivo “più caldo” sulla terra.
(I dettagli chiarificatori non possono essere pubblicati).
Lo scivolamento di uno strumento nella mano destra di Slotin ha causato tale aumento e “l’esplosione” del materiale fissile. È stato uno scoppio silenzioso che però ha mostrato un orribile bagliore blu e un calore terrificante.
Un rapporto ufficiale dell’esercito americano spiega come Slotin si sia subito gettato nella direzione dei raggi gamma per impedire che i suoi assistenti assorbissero migliaia di volte la quantità di radiazione che un corpo umano può tollerare.
Tutti corsero a cercare riparo. Subito dopo, Slotin richiamò i sette perché assumessero le posizioni che avevano durante il test. Calcolò la loro distanza dal centro dell’esplosione e stimò con accuratezza la quantità di radiazioni che ciascuno di loro aveva assorbito.
Dopo aver controllato queste informazioni vitali, chiamò i dottori e le ambulanze.
«Mi spiace che vi siate fatti male», si scusò con il gruppo. «Se la metti così», disse uno «torniamo dentro e ce ne prendiamo un’altra botta».
«No. Direi che ora le possibilità di recupero sono di 10.000 a uno a vostro favore. Ed è così che vorrei lasciarle».
«E le tue possibilità, doc?»
«10.000 a uno contro».
E nonostante le sue conoscenze, Slotin ha aspettato due giorni prima di telefonare a casa a Winnipeg, in Canada. Suo padre, Israel, un agente di commissione per il bestiame, e sua madre, Sonia Slotin, erano tornati da una visita ad amici verso le dieci quel giovedì sera quando una chiamata con linea interurbana giunse a casa.
Da circa 4.100 chilometri di distanza il padre sentì: «Ciao, papà, ciao… sono felice che stiate entrambi bene. C’è stato un piccolo incidente e temo che il viaggio a Bikini sia saltato. Potrei dover restare qui per un po’. Tu e mamma potete volare fin qui a farmi visita?» Poi con una risata: «C’è un inconveniente con quelli dell’esercito, organizzeranno un volo prioritario solo a una condizione: che non vi preoccupiate per me».
La sera dopo, telefonando a suo fratello, Sam, disse: «Sono felice che papà e mamma siano sull’aereo. Ascoltami, Sam, io sto bene. No, non ti prenderei in giro per niente al mondo».
I genitori arrivarono sabato pomeriggio all’ospedale di Los Alamos e videro il loro Lou, sorridente e allegro, il suo viso illuminato dall’abbronzatura del “meraviglioso sole che c’è qui”.
I raggi gamma non avevano lasciato segni sul suo corpo. Non era mai sembrato più sano a eccezione delle sue mani. Giacevano inerti in impacchi di ghiaccio. «Il dottore ha detto che devo raffreddarle», aveva spiegato.
Nelle visite di domenica e lunedì aveva parlato loro di un paio di libri tecnici che voleva scrivere. «Forse posso dettarli, se le mie mani sono doloranti», disse.
Durante la sua visita all’ospedale il martedì, la signora Slotin aveva espresso rincrescimento. «Lou», disse, «sono preoccupata. Ieri volevo pettinarti i capelli. E so perché non me l’hai lasciato fare. I tuoi capelli sono duri e secchi come filo di ferro. Beh, di solito sono sempre soffici e ondulati».
«È solo un sintomo della radiazione, madre. Dammi il tempo di smaltirla».
La stessa notte entrò in coma. Mercoledì era delirante. Dal capezzale, i suoi genitori lo sentirono mormorare: «Vorrei che mi facessero uscire di qui. Potrei iniziare i libri».
Quelle sono le parole con cui lo ricordano. Furono le ultime parole coerenti che pronunciò. Giovedì, alle ore 10 del mattino, Louis morì.
Poi venne rivelata la sua congiura sul letto di morte.
Durante quella telefonata casuale ai suoi genitori a Winnipeg, un’infermiera dell’esercito gli teneva il telefono per parlare. Le sue mani erano inutilizzabili e coperte di ghiaccio.
I sette colleghi di Slotin si sono ripresi; quattro dopo una degenza di due settimane all’ospedale e tre dopo quattro mesi e mezzo. Uno scienziato a perso i capelli. Ora gli stanno crescendo di nuovo.
Uno scrittore americano ha suggerito questo estratto dal report ufficiale dell’esercito come epitaffio appropriato per il martire: “Ha intrapreso un’azione positiva”.
Suo fratello, più giovane di un paio di anni, ha detto: «Lou lo apprezzerebbe. Si vantava di essere meticoloso, non intelligente. Gli piaceva fare di tutto… Non ha dovuto farsi strada al college, ma a 18 anni ha accettato un lavoro come cuoco in un vagone ristorante. Sapeva come vivere – e come morire».

Fonti:
[1] Dr. Louis Slotin and “The Invisible Killer
Traduzione dal Brooklyn Jewish Center Review del 1948. Titolo originale dell’articolo: “Martyr to the Bomb” di Phil Glanzer.


© MONIQUE NAMIE
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Monique Namie

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