
Titolo: Acqua, luce, bum! Il Vajont che non ricordo
Autore: Paolo Munarin
Prima pubblicazione: 1997
Un titolo difficile da trovare e che io, con un colpo di fortuna, sono riuscita a procurarmi per tre euro su eBay. L’ho acquistato perché ho una fissazione per tutto ciò che riguarda il disastro del Vajont e sento la necessità di informarmi al riguardo in modo maniacale.
9 ottobre 1963 ore 22:39. Una gigantesca frana si stacca dal monte Toc e precipita nel bacino artificiale del Vajont. Parte dell’onda che si viene a creare scavalca la diga e precipita incanalandosi lungo la gola in direzione di Longarone. L’abitato verrà spazzato via e i morti saranno quasi 2000.
L’autore di questo libro è il bambino nella foto di copertina, avvolto in una coperta e portato in salvo dai soccorritori. Ha vissuto la tragedia del Vajont, ma aveva appena venti mesi e quindi non gli sono rimasti ricordi, o forse sì? Quando aveva pochi anni e si trovava in riva al mare gli uscirono di bocca alcune parole che sembrano attingere a quella tragica sera: “Acqua, luce, bum!”. Da qui il titolo.
Paolo Munarin è sopravvissuto perché quella fatidica sera si trovava nella casa dei nonni, l’unica rimasta miracolosamente in piedi nella frazione di Pirago. L’onda ha portato fango e detriti al piano terra e ha lambito il primo piano, ma la struttura ha resistito.
Non avendo comunque ricordi elaborati dell’evento, per scrivere questo libro, l’autore ha interrogato amici e parenti. Si scusa più volte per averli costretti a rivivere il dolore attraverso i ricordi. Ricordi che talvolta ha rielaborato, se non del tutto rivisitato, “attraverso la lente deformante del romanziere”.

La narrazione inizia il 9 ottobre 1963 con un’ambientazione in Germania meridionale, a Dillingen. Molti gelatai di Longarone si trasferivano oltre il confine durante il periodo estivo, tra questi c’erano anche i genitori dell’autore. A ottobre la stagione era praticamente al termine. Le gelaterie dei migranti stagionali italiani sarebbero rimaste aperte forse per un altro paio di settimane. Questo primo capitolo scritto in prima persona, con alcuni riferimenti a una seconda persona non ben definita, mi hanno un po’ confusa, tanto che ho dovuto rileggerlo più volte per capire. Chi parla è Paolo Munarin, che descrive una Dillingen d’inizio ottobre del ’63, inserendo in quell’ambiente i ricordi del bambino che sarebbe stato; le passeggiate pomeridiane lungo il marciapiede, giocando a formare dei carri armati ripiegando le foglie cadute; l’amico Polizei a cui forniva una lista delle targhe delle auto in divieto di sosta. Resta il dubbio sull’identità della persona a cui ogni tanto si rivolge: “Il mio Danubio… non ho mai potuto portartici. […] Mi faceva sentire a casa, come il profumo della tua pelle. Mi manca. Anche tu.”
Nel capitolo successivo ci spostiamo a Longarone, stessa data, 9 ottobre 1963. È giorno, un giovane di nome Roberto sta passeggiando per le vie del centro e ricorda quando, un paio di settimane prima, aveva passato la sua prima notte fuori casa in una casèra con gli amici. Sta andando a chiedere in prestito a un compagno di scuola il libro di chimica. Si salutano con un semplice “a domani”. La sera un gruppetto di persone devono incontrarsi per una riunione di partito, ma molti sono in ritardo, (probabilmente preferiscono guardare la partita Real Madrid contro Rangers). La riunione viene posticipata e infine rinviata. Al Caffé Centrale in piazza Umberto I, vicino alla chiesa di Longarone c’è un televisore. Molti sono scesi dalle frazioni limitrofe e si sono riuniti lì per vedere la partita. Un paio di amici escono da quel bar per spostarsi verso la locanda di Faè e se ne vanno anche da quest’ultima solo pochi minuti prima dell’arrivo dell’onda.
Quando, per un motivo o per l’altro, qualcuno si allontana dall’epicentro della strage, compare sempre una frase, come un ritornello. “Uno può anche non crederci, al Destino, tanto Lui se ne frega e fa quello che gli pare, lo stesso. Così.“

La notizia del disastro viene presentata nel libro tramite un notiziario radio. Sono le quattro del mattino in Germania. L’anziana Frau Ziegler, che abita sopra l’appartamento dei genitori di Paolo, ascolta musica classica alla radio cercando di riempire così la solitudine di un’altra notte insonne. A un certo punto, nel dormiveglia sente parlare di un’immane catastrofe nel nord Italia e riconosce il nome di Longarone, paese natale dei due inquilini al piano di sotto. Le prime notizie sono confuse, si dice che la diga sia crollata e abbia spazzato via cinque paesi. Sembra un’esagerazione, ma scende comunque a svegliare i due giovani sposi.
Da questo momento ha inizio un piacevolissimo e sorprendente intreccio di storie. Le ultime azioni dei sopravvissuti, prima e dopo l’ora X, vengono narrati seguendo ora gli spostamenti di un personaggio, ora dell’altro, andando a creare un sovrapporsi di punti di vista diversi che si sviluppano tutti nello stesso momento e nello stesso luogo.
Per seguire le azioni che compiono più protagonisti nello stesso momento, l’autore torna più volte indietro nel tempo per mostrare quell’istante dalle diverse prospettive di ognuno. Come una telecamera che si focalizza su un gruppetto di persone, per poi riavvolgere il nastro e riprendere a seguire qualcun altro. Questo modo di narrare mi è piaciuto molto.
Alcune figure ignote di passaggio prendono nome successivamente, quando è il loro turno di diventare protagonisti della scena. Sono alcuni dei sopravvissuti che si aggirano tra fango, macerie e corpi in condizioni orribili “ai quali resta, ancora per qualche ora, solo la pietà del buio.”
Intanto i genitori di Paolo scendono verso Longarone passando per Monaco, Scharnitz, Innsbruck e il Brennero. Non sanno cosa li attende e le notizie che apprendono lungo la strada abbassano drasticamente le loro speranze.
Anche se non è un libro perfetto, mi ha impressionato molto positivamente. Le imperfezioni riguardano la presenza di qualche refuso e quella seconda persona dalle tinte romantiche che compare all’inizio, e poi non viene più ripresa né chiarita. Il valore aggiunto di questo testo è la verità storica dell’evento narrato, e la presenza delle testimonianze di alcuni dei sopravvissuti, anche se ritoccate con qualche elemento romanzato.
© MONIQUE NAMIE
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